Il Jobs Act: l’eccezione “diventa” regola.

a cura dell’Avv. Ernesto Maria Cirillo

Il D.L. n. 34 del 20 marzo 2014 fa sorgere molti dubbi, innanzitutto sulla sua reale portata innovativa o, come oramai da un ventennio è di moda dire, “riformista”. E’ dal 2003, dalla Legge Biagi, che il Legislatore, periodicamente, ma sistematicamente, mette mano ai contratti cd. flessibili, meglio noti come contratti “precari”. In effetti, la flessibilità in Italia non si è ancora realizzata, mentre il precariato è una solida realtà.

Che si tratti di “accanimento terapeutico” o di lungimiranza politico-economica, saranno i posteri a dircelo, ma è certo, oggi, che, anche a parere di questo Governo, la soluzione alla crisi economica ed occupazionale del nostro paese passi attraverso l’ennesimo lifting all’istituto del contratto a tempo determinato.

D’altro canto, il ricorso al decreto legge in commento viene, dal Legislatore, giustificato così: “Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione; Ritenuta la straordinaria necessita’ ed urgenza di emanare disposizioni volte a semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile; Ritenuta la straordinaria necessita’ ed urgenza di semplificare le modalita’ attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro;…”.

Il Decreto Legislativo n. 276/2003, meglio noto come Legge Biagi, lungi dall’aver liberalizzato l’istituto del contratto a tempo determinato, ha sostanzialmente demandato, al datore di lavoro, la individuazione delle ragioni (sostitutive, organizzative o produttive) giustificanti l’apposizione del termine che, invece, in passato erano tipizzate nei CCNL di categoria. Ragioni che dovevano essere apposte per iscritto nel contratto di lavoro a pena di nullità e sussistere effettivamente.

La necessità di giustificare, per iscritto, la ragione del ricorso al contratto a termine risiedeva e, tutt’ora risiede, nel principio, codificato da normativa comunitaria (direttiva 1999/70) per cui il contratto a tempo indeterminato rappresenta la forma comune dei rapporti di lavoro, mentre le altre, tra cui i casi di apposizione del termine, costituiscono l’eccezione.

All’atto pratico, si è assistito, negli anni a seguire, le imprese, soprattutto le multinazionali e la Pubblica Amministrazione, hanno utilizzato in maniera abusiva l’istituto del contratto a termine (ma anche dei contratti a progetto, apprendistato, somministrazione, associazione in partecipazione ecc.), in assenza di qualsivoglia effettiva, temporanea ragione organizzativo-produttiva, ma per far fronte all’ordinaria attività produttiva.

La magistratura del lavoro, chiamata a decidere sui tanti ricorsi promossi dai lavoratori i quali, dopo anni di servizio, si vedevano risolvere il contratto dal datore, magari perché sostituiti da altri lavoratori a termine, ha iniziato ad annullare, perché contra legem, i vari contratti a tempo determinato, condannando le aziende a riassumere i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato dietro il versamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data della lettera con la quale, lo stesso lavoratore, impugnava l recesso e si rendeva disponibile alla ripresa lavorativa.

A questo punto, il Governo Berlusconi, con il D.L 112/2008, viene in soccorso delle imprese stabilendo che un contratto a termine, dichiarato illegittimo, non avrebbe potuto trasformarsi in contratto a tempo indeterminato,  perché da quel momento in poi la illegittimità sarebbe stata sanzionata solo con un risarcimento monetario (tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione). Come è spesso accaduto in questi ultimi 20 anni di governo del paese, la Corte Costituzionale, sollecitata ad esprimersi sulla conformità della “riforma” alle regole costituzionali, con sentenza n. 418/200, ne dichiarava la anticostituzionalità.

Fallito il tentativo di legittimare il ricorso abusivo ai contratti a termine, rimanendo, sostanzialmente impuntiti, nel 2010, il governo Berlusconi, approva una nuova “riforma” del lavoro, contenuta nella L 183/2010 (anche nota come Collegato Lavoro), provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2009-2013, che è intervenuta in vari ambiti del settore lavoristico.

Con il Collegato Lavoro, viene drasticamente limitato il diritto di accesso alla giustizia dei lavoratori. Infatti, viene introdotto un termine di decadenza di 60 giorni per impugnare, praticamente, tutte le cause di lavoro: contratti a termine, progetto, somministrazione, cessione di ramo di azienda, trasferimento ecc., mentre prima la prescrizione era quinquennale.

Viene reintrodotta la sanzione pecuniaria (da 2,5 a 12 mensilità) nell’ipotesi di accertata illegittimità del contratto a termine in luogo del pagamento di tutte le retribuzioni, dalla data della mora credendi, fermo restando la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La L 183/2010 contiene poi numerosi altri interventi in materia di lavoro e previdenza.

Nonostante l’ampia “riforma” introdotta dal Collegato Lavoro, le sorti economiche ed occupazionali del nostro paese non migliorano ed anzi, nell’estate del 2011 precipitano.

Si avverte, ovviamente, la necessità di una “riforma”.

Diviene presidente del Consiglio il prof. Mario Monti e, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, viene nominata la dr.ssa Elsa Maria Fornero, professoressa in economia politica che da il nome alla L 92/2012 di “riforma” del lavoro. Gli interventi della Legge Fornero spaziano dalla collaborazione a progetto, ai licenziamenti, al lavoro intermittente, sino ad arrivare alla modifica dell’”articolo 18” tanto caro alle organizzazioni sindacali che, pure su questo diritto dei lavoratori, cedono miseramente.

E’ la L 92/2012 ad introdurre il contratto a tempo determinato “acausale” ovvero sottoscritto in assenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive.

Il contratto a tempo indeterminato resta la forma comune di rapporto di lavoro (sebbene nel Decreto Legislativo 368/2001 si parlasse di regola).

L’eccezione (l’assenza della causale) dell’eccezione  (il contratto a  tempo determinato), secondo la legge, è limitata ai soli contratti (anche di somministrazione), afferenti al primo rapporto di lavoro, di durata non superiore a 12 mesi, e non prorogabili.

Anche questa “riforma” del lavoro non sortisce effetti positivi né sull’economia né sull’occupazione; entrambe continuano, inesorabilmente, a calare.

Evidentemente c’è bisogno di una “riforma” che, puntuale, arriva con il Decreto Legge n. 73/2013 (pacchetto lavoro). Le modifiche introdotte dal decreto riguardano neanche a dirlo, il “sovrastimato” contratto a tempo determinato.

La possibilità di concludere un contratto a tempo determinato (o di somministrazione a tempo determinato) senza causale viene estesa anche al caso in cui sia la contrattazione di collettiva ad individuare ipotesi di acausalità pure in presenza di plurimi rapporti a tempo determinato e di durata superiore a dodici mesi. Il divieto di proroga dei contratti acausali viene eliminato.

Neppure questa “riforma” risolleva l’occupazione sia essa giovanile che meno giovanile.

L’ultimo atto di questa ostinazione, oramai patologica, che il nostro Legislatore ha assunto verso il contratto a tempo determinato, come panacea alla crisi occupazionale è rappresentato dal Job Act del governo Renzi, la cui gestazione sembra non finire mai.

Di fatto, il D.L. 34/2014 ha trasformato il contratto a termine nella regola ovvero nella forma comune di contratto di lavoro e quello a tempi indeterminato l’eccezione. Il contratto acausale potrà essere siglato per 36 mesi, comprensivi di proroghe, per una percentuale di lavoratori occupati in azienda non superiore al 20%.

La “riforma” in parola, solleva forti dubbi di compatibilità rispetto alla normativa comunitaria (Direttiva 1999/70) che prescrive come il rapporto di lavoro a tempo indeterminato sia la regola.

Sempre il Job Act interviene sui contratti di apprendistato spogliandola del suo connotato essenziale, la formazione ai lavoratori apprendisti.

Cosa accadrà al paese ed ai lavoratori lo vedremo negli anni; ciò che è certo è che continua l’ostinato, fallimentare tentativo, di cancellare i contratti a tempo indeterminato in favore di una precarietà che non è solo occupazionale ed economica, ma sociale, mentale, e che sta consegnando non soltanto i giovani, ma i loro stessi genitori, alla cultura della paura.