Jobs Act: quale riforma?

Articolo a cura dell’Avv. Ernesto Maria Cirillo.

Sembrerebbe essere tramontato l’inutile tentativo di modificare ulteriormente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, norma che regolamenta i licenziamenti del personale impiegato nelle aziende con più di 15 dipendenti.In effetti, la “riforma” c.d. Fornero ha già sostanzialmente svuotato l’art. 18 della sua reale portata garantista posto che la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro è possibile, con la nuova novella, soltanto nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio o disciplinare sfornito di una giusta causa. Pertanto, a meno che non si voglia legittimare anche queste ultime forme di recesso, non è dato capire dove ed in quali punti, l’art. 18 possa essere ulteriormente mortificato, senza contare che, come ha dimostrato proprio la legge Fornero, l’attuale, perdurante crisi produttiva ed occupazionale, non ha nulla a che vedere con la riforma all’art. 18 o dei contratti a termine. Le “riforme” intervenute in questi anni in materia di lavoro, infatti, non hanno frenato la crisi, ma, al contrario, l’hanno alimentata producendo un numero sempre crescente di precari con pochi soldi da spendere.
Messo, quindi, da parte l’art. 18, l’idea di questo nuovo Job Act sembrerebbe orientarsi sulla possibilità, per le aziende, di demansionare i propri dipendenti assegnando loro compiti inferiori, sotto l’aspetto professionale, rispetto all’inquadramento rivestito ed alle pregresse mansioni svolte. Nell’attesa di maggiori dettagli su come verrà disciplinata l’ipotesi in esame, va qui ricordato che non rappresenta una novità la possibilità, per il datore di lavoro, di demansionare un proprio dipendente, anche senza il suo consenso.
L’art. 2103 cod. civ. dopo avere, nel primo comma, vietato l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto, stabilisce nel secondo comma che “ogni patto contrario è nullo”. Sulla base di un oramai unanime orientamento dottrinale e giurisprudenziale, si ritiene che il divieto contenuto nel capoverso dell’art. 2103, giustificato nella sua rigidità quando lo stesso articolo venne novellato dall’art. 13 1. n. 300 del 1970, ossia in una situazione generalmente favorevole del mercato del lavoro, debba oggi essere interpretato nel senso che sulla tutela della professionalità debba prevalere quella dell’interesse al mantenimento del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.). Tale orientamento, favorevole al cd. “patto di dequalificazione” autorevolmente avallato dalla decisione delle sezioni unite n. 7755/98 quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, muove dalla premessa che in realtà non si tratta di una deroga all’art. 2103 c.c. – norma diretta alla regolamentazione dello ius variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del secondo comma dell’articolo – ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto che, come tale, deve essere sorretto dal consenso, oltre che dall’interesse, dello stesso lavoratore; così come è richiesto l’accordo collettivo per assegnare mansioni diverse, anche in deroga all’art. 2103, ai lavoratori ritenuti eccedenti dalla imprese che avviano la procedura per la dichiarazione di mobilità (art. 4, comma 11, l. 223/1991). Addirittura, qualora a seguito di una riorganizzazione non vi fosse più in azienda una determinata mansione, il datore potrebbe, al fine di evitare di licenziare il proprio dipendente addetto a quell’attività, demansionarlo anche senza il suo consenso.
L’assenza di una reale portata “riformista” della nuova versione del Job Act risiede, altresì, nel fatto che, già con la c.d. manovra economica-bis, la Legge n. 148/2011 di conversione del Decreto Legge n. 138/2011 – “Misure a sostegno dell’occupazione” ha previsto, con l’art. 8, la possibilità di definizione convenzionale di equivalenza delle mansioni e dell’inquadramento da parte della contrattazione collettiva di prossimità, anche in deroga alle previsioni dell’art. 2103 e, dunque, eventualmente consentendo anche il demansionamento del lavoratore e un inquadramento che prescinda dai titoli e dall’esperienza.
Interessante, invece, sembrerebbe l’idea del contratto d’inserimento a tutele crescenti riservato ai giovani fino a 35 anni e alle persone con più di 50 anni. In pratica, i loro datori potranno per tre anni licenziarli senza vincoli (una sorta di lungo periodo di prova, forse troppo lungo) ma, se li confermeranno, riceveranno un bonus fiscale.

Napoli 13.09.2014